La battaglia romantica in Italia (1946)

La battaglia romantica in Italia, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa», s. II, vol. XV, Pisa 1946 (poi in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693).

LA BATTAGLIA ROMANTICA IN ITALIA

La data simbolica del romanticismo italiano è il 1816, inizio delle lunghe discussioni soprattutto milanesi, che ripresero, con un vigore di polemica ravvicinata e precisata e con interesse rischiarato da riferimenti piú largamente culturali e morali, una querelle iniziata già durante il Settecento e a cui la tradizione di storia letteraria non ha dato sufficiente rilievo. Quel 1816 cosí andrebbe considerato sia come speciale momento di una scuola romantica italiana, sia come risultato di una preparazione di lunga mano, anche se dispersiva ed incerta. E andrebbe ricercato negli epistolari del Cesarotti, del Vannetti, del Bettinelli, il tono di reazione diversa alle prime applicazioni del gusto preromantico in Italia; e da spunti spesso occasionali, da simpatie fugaci e spurie, da negazioni e incomprensioni spesso ritorte e confuse con accettazioni prudenti, si profilerebbe una complessa figura di discussione che anticipa a volte con un estremismo infantile, a volte con un sostanziale fondo arcadico ed equivoco, le posizioni 1816. Una vera polemica, certo molto accademica e settecentesca, sui nuovi temi del classicismo tradizionale e del nuovo gusto europeo preromantico, si svolse intorno ad un quesito dell’Accademia virgiliana di Mantova (1780)[1] cui particolarmente notevole fu la risposta ricca e scialba del Pindemonte: un primo punto su un lungo cammino di polemiche ravvivate dalla pratica combattività di soluzioni poetiche che vanno dalle versioni preromantiche (in cui tutta una sottile storia di gusto non ancora precisato in poetica è scritta da spiriti timidamente o esteriormente rivoluzionari) alle prove esagitate di un Gargallo (che diventerà poi, in quest’epoca di facili conversioni, impeccabile classicista) o di un Viale (il Solitario delle Alpi), alle esili sintesi del Pindemonte, alla gelida fedeltà classica di un Vannetti. E una polemica complessa, intima alla storia della poetica di fine Settecento è implicita naturalmente nelle affermazioni del Monti, nel Commento alla Chioma di Berenice del Foscolo, in cui la finale vittoria neoclassica (con il richiamo esplicito ad una tradizione indigena pariniana nelle note pagine del Gazzettino del Bel Mondo) implica una speciale soluzione romantica, come, in altri termini, avverrà piú tardi nel Leopardi.

Sicché alla fatica di Egidio Bellorini, che ha raccolto in due grossi volumi degli Scrittori d’Italia[2] articoli di giornali letterari, opuscoli interi o riportati nelle loro parti essenziali (con una cura minuziosa che tende perfin con troppo poco distacco di storico ad allineare ogni documento in cui i termini della polemica siano anche perifericamente accennati), desideriamo che si accompagni una raccolta di testi preromantici che indichi una vita piú giustificata alle discussioni 1816 e dia alla loro novità e al loro carattere particolarmente italiano l’appoggio non tanto di legami vistosi (il riconoscimento alla Saluzzo come precorritrice, e non molto di piú), quanto di un tessuto complesso di sensibilità, di linguaggio, di offerte di temi che il neoclassicismo non aveva del tutto soffocato, venato come era da aspirazioni romanti che. Storicizzazione che meglio spiega anche il carattere civile, riformatore, del nostro romanticismo ottocentesco che non dimentica la sua parentela illuministica (l’elogio intenzionale del Conciliatore al Caffè) tanto piú plausibile proprio perché gia nuclearmente sensibilizzata, permeata di nuovi succhi preromantici nella sua manifestazione piú complessa ed italiana (accanto a Pietro, Alessandro Verri). E piú facile insieme riuscirà accertare che cosa importava essenzialmente la famosa lettera della Staël che il Bellorini riporta come tradizionale documento di inizio della «romanticomachia», anche se ci interessa relativamente, nel fitto scambio europeo di quegli anni, la nazionalistica rivendicazione di indipendenza della nostra tradizione letteraria che ben prima della Staël si era, con infiniti contrasti e con innumerevoli remore, aperta (e con ingenuità ben percepibile ad esempio nelle lettere al Van Goens del Cesarotti[3]) ad una considerazione meno sciovinistica della cultura letteraria europea. Ché soprattutto in un ambiguo complesso di stantio italianismo accademico e di nazionalismo risentito e piú che letterario, e, in un analogo nesso, poco solubile, di cosmopolitismo illuministico e di fresco senso romantico di una piú aperta aria europea, si muove gran parte del dibattito sul romanticismo in Italia e l’acredine dei difensori della tradizione nasce soprattutto da un equivoco fondamentale, certo autorizzato da brutali trasposizioni e incrudimenti di temi e paesaggi d’orrore di alcuni traduttori e imitatori preromantici[4], ma ingrandito dall’occhio bovino dei classicisti piú settari, chiusi in una sterile ammirazione di un mondo perfetto non nel suo spirito, ma nelle sue forme, nel suo armamentario mitologico e nel suo riferimento ad una convenzionale serenità mediterranea che solo i grandi romantici neoclassici, Foscolo e Leopardi, nutrirono di una nostalgia poetica e profondamente personale.

Equivoco che pone sullo stesso piano l’esagerazione barocca e gli eccessi sentimentali della poesia anglotedesca e giudica tutta la nuova letteratura romantica, ormai matura e capace di capolavori spesso chiaramente riconosciuti, alla stregua di componimenti preromantici deteriori: l’equivoco dell’ultimo Settecento viene ripreso, ampliato e reso piú falso in una figura piú completa e convalidata dal gusto neoclassico e dalle opere neoclassiche (nutrite però di tanta cultura preromantica). Ed anche nei piú moderati l’incompatibilità fra il «genio» italiano e quello settentrionale è ribadita insieme al disprezzo, a volte banale a volte piú dedotto, per un contenuto poetico, per le lingue straniere, per una civiltà diversa da quella italiana. Cosí, mentre l’astioso Mabil riprende i vecchi argomenti che trovarono vita anche nel Leopardi del Discorso di un italiano sulla poesia romantica[5] («Che ingombriamo le nostre scene di patiboli, di carnefici, di teschi, di stregoni e di fantasmi? Che ceda Omero ad Ossian, Alfieri e Metastasio a Calderone e Shakespeare?»[6]), il Gherardini trova un peggioramento perfino rispetto al Seicento perché la letteratura nuova «si è allontanata non pur dall’antico, ma dal nazionale. Ché almeno i seicentisti avevano una pazzia originale e italiana», e nega «che quelle letterature (comunque verso di sé belle e lodevoli) possano arricchire e abbellire la nostra, poiché sono essenzialmente insociabili»[7]. Evidentemente i classicisti piú sobri, che riprendevano la vecchia polemica contro le «mal nate fonti» di pariniana memoria, avevano soprattutto davanti certi estremismi dell’ultimo Settecento e una storta immagine delle letterature straniere, attribuendo ai novatori, come avviene sempre da parte dei reazionari, intenzioni e programmi da cui il timido romanticismo nostrano era ben lontano, pronto fra l’altro com’era a sconfessare ogni manifestazione troppo ardita e contrastante con quel gusto equilibrato che trovava un limite massimo già scontato nella prosa agitata dell’Ortis[8].

Nella storia della polemica originata dalla lettera della Staël e via via complicata da interventi, movimentata o rallentata mentre già il romanticismo ufficiale creava le sue opere poetiche (si può notare un ristagnare delle discussioni fra il ’21 e il ’25 prima del Sermone montiano), è subito perciò accertabile una monotonia negli argomenti dei classicisti ed un atteggiamento per lo piú vuotamente satirico, estremamente tendenzioso nella citazione di frasi degli avversari (specie nel Caleppio), retoricamente nazionalistico e provinciale nell’opporre, a ragioni traducibili in termini di civiltà e di poetica, elenchi esclamativi di glorie locali, settecentescamente scelte soprattutto nelle scienze o nella accademia filologica erudita, per cui un Mai poteva apparire un genio ancor piú che «italo eroe», come il giovane Leopardi lo immaginò facendolo partecipe di un mondo giovanile di prepotenti aspirazioni.

Falsificazione settaria ed equivoco tradizionale che seppero far dire alla prima lettera della Staël piú di quanto essa voleva, reagendo anche agli innegabili acquisti che la letteratura italiana aveva fatto con l’opera di conoscenza e di traduzione del secondo Settecento («se alcuno intenda compiutamente le favelle straniere, e ciò nonostante prenda a leggere nella sua lingua una buona traduzione, sentirà un piacere per cosí dire piú domestico ed intimo provenirgli da que’ nuovi colori, da que’ modi insoliti, che lo stil nazionale acquista appropriandosi quelle forestiere bellezze»[9]) e vietandosi una comprensione che i grandi scrittori neoclassici sembravano rendere inutile per una poetica che pure si era aperta precedentemente alla suggestione dello pseudo Ossian, del Werther, della poesia sepolcrale inglese. Ma nei grandi neoclassici certe negazioni ed esclusioni maturavano in una romanticissima nostalgia del mondo antico e in una volontà di perfezione formale, che colpiva dall’alto di una coscienza artistica altissima l’approssimatezza dei tentativi preromantici, mentre negli zelatori dei fogli antiromantici indicavano soprattutto chiusura provinciale, misoneismo, conformismo abitudinario che non sapeva distinguere, negli scritti della «Biblioteca italiana» della «pitonessa», i generici e arrischiati giudizi su scrittori italiani del passato (del resto presenti solo in altre opere come De la littérature), frutto di un atteggiamento spavaldo e immaturo, tradizionalmente rimproverato ai francesi (Baretti e Voltaire), ed i consigli di maggiore coraggio culturale che veniva precisato nella prima e nella seconda lettera «non per diventare imitatori»[10]: «conoscere non trae punto seco di necessità imitare»[11].

Il pettegolezzo dei classicisti, gustosamente portato a motivo di rappresentazione nelle Avventure letterarie di un giorno di P.G. Borsieri (opuscolo che ricorda il brio di Alessandro Verri, indica i legami di tono tra secondo settecento lombardo e milieu Conciliatore e qualifica questa prosa viva ed aderente come espressione di una civiltà letteraria piú franca ed aperta di quella classicista), dove anche il fondamentale appello patriottico degli antiromantici viene capovolto con rapida eleganza («Cessiamo, vi prego, dal leggere questi articoletti [del Caleppio] che non possiamo coll’autore loro denominare italiani; poiché va ormai negato un sí bel nome a tutto ciò che ha poco valore, o che gonfiandoci d’orgoglio tende a contrastarci i frutti della comune civilizzazione»[12]), sale ad una dignità e ad una misura piú pacata nel Londonio e termini di maggiore sensibilità, di intelligenza aderente ad uno schema poetico per quanto riveduto tradizionalmente, fissano un dibattito piú significativo e fecondo, accennando all’altra linea innegabile in questa confusa battaglia: una linea di poeticità gratuita, di fantasia lontana da scopi immediatamente civili che, al di là delle parole precise, viene affermata da alcuni classicisti contro un gusto pratico, facilone, moralistico, che non manca alla combattività dei romantici 1816, alle loro audacie un po’ esteriori e poco nitide. Donde deriva quella cura della parola, quella difesa di un mondo di fantasia che nella letteratura tedesca trovò uguali sostenitori in Novalis e Hölderlin, ma che da noi fu certamente nella realtà poetica, piú viva nei cosiddetti antiromantici Leopardi e Foscolo che non nei romantici ufficiali.

La posizione classicistica militante porta nella sua sostanziale negatività conservatrice (le polemiche piú triviali, personalistiche nascono su basi reazionarie ed è perciò che raramente questi classicisti nel loro diffuso umorismo satirico raggiungono una freschezza ed un’incisività che vada oltre alcune riuscite caricature dei margini estremi della moda romantica soprattutto ancora ossianesca[13]: «dolce-brusco un rio di miele e birra»[14]) spunti diversi di scontentezza brontolona e passatista (si pensi che nel 1824, quando vivevano ed operavano Monti, Foscolo, Leopardi, Manzoni, c’era chi si lamentava che l’Italia, «dopo il risorgimento delle sue lettere, non fu mai sí scarsa di veri poeti che adesso»[15]), di recriminazioni contro la nuova oscurità in cui vecchie eterne accuse[16] e specifico accenno alla poetica di ordinata chiarezza si mescolano nella generale acredine (tipico l’Attaccabrighe destinato appositamente alla «classico-romantico-machia») e nella settaria volontà denigratrice che finiva per esaltare i romantici stranieri, per degradare i nostrani ed arrivava a trovare Byron non romantico (quel Byron che ebbe la massima influenza sui romantici italiani al punto che spesso piú che di romanticismo si dovrebbe parlare di byronismo italiano, e che soffocò con la sua prepotente presenza letture poetiche piú genuine e piú profondamente romantiche) perché non aveva sdegnato di nominare nella sua poesia qualche greca divinità[17]. Dove si vede chiaramente l’equivoco sorto dalla polarizzazione eccessiva sulla questione mitologica che in altre culture romantiche venne piú fusa e sottomessa a principi fondamentali, come il ripudio delle poetiche in nome di una ispirazione libera, incondizionata da schemi astratti, produceva tra i classicisti l’equivoco di una richiesta di regolarità come indispensabile alla poesia, che trovavano insoddisfatta nell’anarchia romantica non comprendendo essi, e non facendo ben risaltare gli altri, che era principio della poetica romantica proprio una aderenza ispirativa piú immediata e genuina, una intima regolarità organica. Ma per i classicisti la poetica equivaleva ad una ordinata e immutabile precettistica e per i romantici la reazione ad essa importava, nella loro scarsa chiarezza teorica, un trionfo di immediatezza spesso rozza e sciatta o viceversa una piatta applicazione di precetti antitetici a quelli classicisti, una confusione dell’anticrusca già illuministica (torna il bando del Caffè: Cose, non parole) e di una esigenza piú schiettamente lirica e insieme pregna di valore umano. Buon senso e libertà fantastica confluiscono nel limite di una poetica in gran parte polemica, contro le «regole» e le «unità» che i migliori classicisti venivano già svuotando del loro carattere piú dogmatico, e un gusto di vigore creativo nel mito della poesia popolare si confondeva con la rivolta settecentesca al formalismo, con l’impegno civile e volgarizzatore dei «lumi»[18]. Cosí il grande Porta vedeva nel romanticismo la lotta contro

tutt quell che tacca lit con la rason,[19]

contro ogni formalismo esangue

(che la forma no fa el bon del pastizz),[20]

contro le regole sterili a cui egli oppone, nella piú efficace allegoria del «torto e diritto del non si può», il trionfo di una attuazione incancellabile perché esistente:

Fan tal e qual che fava quel bon omm

che ghe crïaven (che la scusa on poo)

perché el fava i fatt soe depôs al domm:

«Se pò no, se pò no... – Ma mi la foo»

el respondeva intanto al busseree.

S’el gh’avess tort o no, la diga lee.[21]

Efficacia ed equivoci che ritornano in questa lotta che ha spesso il carattere buffo di uno scontro a mosca cieca[22] anche a proposito dell’elemento nazionale assunto dai romantici in forza di un genuino amore del concreto (anch’esso però rischiarato dall’europeismo settecentesco e lontano dall’intensità fanatica di alcuni teorici tedeschi e da certi spunti piú tardi dell’Alfieri[23]), ma viceversa creduto dai classicisti argomento a proprio favore sia per la loro tradizione di sciovinismo letterario sia per una facile utilizzazione dello stesso canone romantico dell’influenza ambientale sulla poesia.

Anzi questo punto controverso e l’adesione disputata alla «natura» costituiscono (al di là delle discussioni piú tecniche delle «poetiche» delle «regole», del modello oraziano[24]) il centro piú profondo della polemica, quello su cui piú si fermarono i massimi campioni (Di Breme, Londonio, Visconti) e che individua meglio il fondo romantico che si trova anche nei piú fini classicisti, sottilmente formato da una esperienza (quella preromantica) inevitabilmente assimilata: e il Discorso leopardiano ne è la massima prova.

È vero che i romantici rivendicano un predominio sentimentale (ma quale diversità dalle estreme rivendicazioni tedesche! quale maggiore vicinanza piú spesso a Lessing che a Novalis!) e risolvono ogni regolarità esterna in quella regola del «cuore» che il Torti faceva, con ingenua eloquenza, unica unità drammatica. Ma certo quando i classicisti rivendicavano la sensibilità meridionale, la tenera dolcezza dell’idillio classico, erano mossi anche essi da un’esigenza nostalgica e sentimentale, da un senso romantico della poesia che poteva, come avvenne nel Leopardi, sorreggere romanticamente una poetica di attente misure, di controllata tradizione, originalissima e concretamente letteraria. E cosí le pagine piú mosse e vive del classicisti son quelle che esprimono l’esaltazione del dolce mondo mediterraneo e di una poesia della natura che paiono, specie nelle pagine del Leopardi, consonare con la Sehnsucht romantica dei nordici verso il sud, verso la dorata felicità greca e italiana di Hölderlin o di Platen[25]. Quando il Londonio reagiva contro i modelli stranieri credeva non solo di fare un gesto di nazionalismo, di affermare un intimo motivo poetico, un senso di insopprimibile serenità, di alto idillio congiunto con un senso aristocratico della forma, inevitabilmente classica, ma soprattutto di non perdere cosí l’essenziale riferimento della poesia alla natura che sarebbe stato falsato e tradito da un tono patetico e malinconico derivato da una natura fondamentalmente impoetica e barbara come quella nordica. E piú in profondo il giovane Leopardi congiungeva natura, memoria della fanciullezza, poesia antica in un senso della poesia ingenua di idillio elegiaco estremamente romantico[26], opponendolo ad un presunto intellettualismo dei romantici, a una loro carenza di «illusioni» indispensabili alla poesia[27], che capovolgevano, nella sua personale valutazione, il riferimento poesia-popolo proclamato dai romantici, accusati di contraddizione dallo stesso loro punto di vista: «si sforzano di rendere la poesia quanto piú possono, astrusa e metafisica e sproporzionata all’intelligenza del volgo»[28].

Su queste posizioni, cosí intimamente romantiche, non si muovevano certo i polemisti classicisti che il Bellorini ci presenta e la parola del giovane Leopardi è ben altrimenti vicina alle piú sottili intuizioni romantiche, che nel clima italiano rimasero però sempre in una limitazione tra civile e di buon senso, raggiungendo un equilibrio attivo in Berchet e Visconti, sfiorando un’audacia piú decisa nel piú romantico di questi scrittori: il Di Breme. Con il Di Breme la poetica romantica si profilava nella sua massima novità sentimentale antioraziana («cortigiano ed epicureo», Orazio appariva un semplice cesellatore di parole ad uno spiritualismo nutrito di ardore alfieriano), antiformalistica fino ad un disprezzo provvisorio di ogni cura stilistica per l’esigenza veemente di una continuità e pienezza passionale: «Nella piú imperfetta bozza di vera ispirazione vi ha piú poesia, se n’ha da sperare piú sicuro effetto, e piú intimo piacere, che non produrrà giammai il piú lindo, lisciato ed irreprensibile madrigale»[29]. Si prospettava la necessità di una tensione drammatica che spiegava l’adozione di temi foschi, di situazioni terribili «onde tratteggiare le profondità del cuore umano», l’essenzialità di un modèle interieur e dell’«analogia» in cui consiste l’ésprit de la langue[30], e insieme, sul piano di discussione caro ai classicisti, sulla «natura» si avviava confusamente un discorso fecondo che ne combatteva l’appropriazione nelle forme mitologiche mostrandola «piú avvivata» in immagini, in analogie tratte da un contatto diretto e sensibile, e ne estendeva il dominio fino alla sensazione dell’infinito. E un piú creativo impeto romantico tentava di superare il vecchio concetto di imitazione della natura a cui i classicisti rimanevano fedeli: «La natura non ti ha già composto nella mira che tu imitassi lei in quel solo modo che lo intendi; ché anche tu sei la natura, e sei per di piú il suo interprete, il suo rivale nell’ordine morale, sensitivo e imaginoso». Donde derivava una trasposizione del «naturale» tanto caro al Leopardi, dalla descrizione idillica del paesaggio ad un’intima lirica dei sentimenti: quasi ad una lirica di descrizione tutta interiore e sentimentale. Il Di Breme, aiutato da una cultura piú romantica ed idealistica (nel ritratto del romanticismo italiano bisogna sempre calcolare la mancanza di una profonda conoscenza della filosofia idealistica, e l’utilizzazione ibrida della filosofia illuministica che diede però nel Leopardi un risultato di estrema vitalità) rappresenta cosí il punto piú avanzato in vista di una poetica romantica che, nel discorso piú mediocre del Pellico o nel buon senso vigoroso del Berchet, si atteggiò in limiti e in forza ben diversi da quelli di altri romanticismi, risentendo il peso di una particolarissima tradizione settecentesca e della particolare mediazione preromantica già assimilata d’altronde nel piú fecondo neoclassicismo. Sicché, con alcune punte estreme e con contrasti spesso equivoci, la querelle romantica 1816-26 indicava, in un cadere dei secchi rami del classicismo piú intransigente e settario, la formazione di un clima letterario fecondo e medio da cui potevano salire la potente prosa manzoniana e la lirica leopardiana, in cui i nuovi miti romantici, nella loro massima tensione, trovavano espressione in una purezza lontana dall’approssimatezza della scuola romantica. E proprio «pellegrino» classicista e «popolare» romantico trovavano in quella lirica la loro piú intima fusione.


1 Notevole anche la risposta di M. Borsa con le osservazioni dell’Arteaga (Venezia 1784) e – chiaro precedente delle satire antiromantiche – la parodia ossianesca del Vannetti, La scuola del buon gusto nella bottega del Caffè nei Dialoghi dell’Eremita (1787, in Opere, Venezia 1826, V). E nella stessa direzione di preludio alle posizioni antiromantiche notevoli gli scritti irosi del Rubbi (Dialoghi fra il sig. Arteaga e A. Rubbi in difesa della letteratura italiana, Venezia 1785; Dialoghi fra il sig. G. Andres e A. Rubbi in difesa della letteratura italiana, Venezia 1787).

2 Discussioni e polemiche sul romanticismo (1816-1826), Bari, Laterza, 1943.

3 Epistolario, Firenze 1811, I, pp. 121-122.

4 Si pensi come esempio estremo alla novella del Gargallo, Engimo e Lucilla, Napoli 1792.

5 Discorso di un italiano, ecc., Poesie e Prose di G. L., ed. Flora, Milano 1940, II, p. 527: «Ma perché l’amore dev’essere incestuoso? perché la donna trucidata? perché l’amante una cima di scellerato, e per ogni parte mostruosissimo? Troppe parole si potrebbero spendere intorno a questo argomento, stante che l’orridezza è l’uno dei caratteri piú cospicui del sentimentale romantico… e sia pur gloria dei romantici, come gridano, l’essere piú dilettati dalla sensibilità di demonii che degli uomini …».

6 Vol. I dell’ed. Bellorini, p. 470. A proposito di Shakespeare, che era stato uno degli idoli della discussione settecentesca, ancora nella polemica 1816 vi è qualcuno (A. C., op. cit., I, 294) per cui non pare avvenuta la chiarificazione del Discours barettiano.

7 Vol. I cit., pp. 22-23.

8 Si ricordi l’articolo del Berchet nel n. 46 del Conciliatore contro il Tedaldi Fores per un suo poemetto «orroroso» e la chiarificazione seguente: «Sí, vogliamo tremare, e lagrimare e gemere, perché fra i tanti diletti poetici sappiamo anche noi che è soavissimo quello della malinconia e del pianto. Ma le lagrime non sono mai figlie dell’orrore e del ribrezzo».

9 Op. cit., vol. I, p. 4.

10 Op. cit., vol. I, p. 5.

11 Op. cit., vol. I, p. 65.

12 Op. cit., vol. I, p. 119.

13 Già il Cesarotti nelle Osservazioni all’Ossian (ed. Pisa 1801, III, p. 380) aveva negato la necessità della mitologia: «La divinità di Ossian non è altro che Ossian medesimo. Senza Apollini, senza Muse, senza salir in groppa del Pegaseo, senza trasformarsi in cigno, il poeta sa rapir l’anima con un felicissimo e naturale entusiasmo, che le divinità poetiche coi loro prodigi non sono niente piú necessarie alla poesia dell’altre divinità favolose, credute senza fondamento da alcuni critici essenzialissime all’epopea».

14 Solo alla Parodia dello statuto d’una immaginaria accademia romantica di un ignoto con pseudonimo Arnaldo si può riconoscere un brio del resto facile e breve nell’ambientare l’ipotetica accademia («Essa terrà le sue adunanze nell’antico castello di Fanfaluconia e sue vicinanze, e si adunerà tutte le sere che sarà lume di luna», I, 209) e fin nel cogliere con acume di timbro diverso da quello degli altri classicisti il tono sensuale di certo sentimentalismo romantico: «mescolare la sensibilità alla sensualità»: anche se possiamo pensare che l’incontro sia piú casuale di quanto può suggerire la frase in sé e per sé.

15 Bellorini, II, 201.

16 Già il Pindemonte aveva satireggiato l’oscurità di alcuni preromantici nel Sermone In lode dell’oscurità nella poesia e il noto «fumoso enigma» giordaniano indicava un atteggiamento di incomprensione non solo per l’intrinseca oscurità logica, ma per una poetica piú libera e lirica. Polemiche sorte all’inizio di una poetica, che dovrebbero riuscire istruttive per chi nelle diatribe moderne sull’ermetismo non distingue ragioni discutibili, ma intrinseche, da una pigrizia mentale di fronte al nuovo che è notabile in ogni rivoluzione letteraria.

17 G. Acerbi in Bellorini, II, III. E la «Biblioteca italiana» nel ’19 contrapponeva gli Schlegel e i romantici stranieri rimasti «ne’ giusti limiti della ragione» agli italiani che davano delle regole frivole espresse con una mistica oscurità (Bellorini, II, 3).

18 E il Londonio vedeva viceversa nel romanticismo un appello alla barbarie e all’ignoranza.

19 Bellorini, II, 423.

20 Bellorini, II, 424. O ingenuo e rude preludio alle complicate giustificazioni dei contenutisti novecenteschi!

21 Bellorini, II, 423.

22 Cosí a proposito dell’Ariosto romantici e classicisti si accordavano nell’esaltarlo negandone però agli avversari il diritto, tentandone un’esclusiva intransigente.

23 «Sí che il Goethe poteva osservare che in Italia tutto ciò che è patria e nazionale viene anche ascritto al romanticismo, e ciò perché il romanticismo, prendendo di mira la vita, i costumi e la religione trova il massimo pascolo nella lingua materna e nei sentimenti nazionali» (Bellorini, II, 479).

24 Il modello di Orazio subisce ora il suo tracollo dopo una fortuna essenziale nel Settecento classicheggiante e illuministico: e nello stesso neoclassicismo, malgrado la fedeltà del Vannetti e la traduzione del Gargallo, Orazio cede il suo posto di maestro per eccellenza a Pindaro, ad Omero, al Virgilio bucolico e didascalico.

25 Si può notare perifericamente come sia caratteristico della sostanziale nostalgia romantica questo scambio di direzioni sentimentali: i nordici guardano con occhi rapiti il meridione ricco di vita e di passione, i meridionali vagheggiano la desolata tristezza, l’allegoria d’infinito del Nord.

26 V. Leopardi, Discorso di un italiano, ed. Flora, Prose, II, p. 479. «Quello che furono gli antichi, siamo stati noi tutti, e quello che fu il mondo per qualche secolo, siamo stati noi per qualche anno, dico fanciulli, dico partecipi di quella ignoranza e di quei timori e di quei diletti e di quelle credenze e di quella sterminata operazione della fantasia... Io stesso mi ricordo di avere nella fanciullezza appreso coll’immaginativa la sensazione d’un suono cosí dolce che tale non s’ode in questo mondo...».

27 «Già è cosa manifesta e notissima che i romantici si sforzano di sviare il piú che possono la poesia dal commercio coi sensi, per li quali è nata e vivrà fintantoché sarà poesia, e di farla praticare coll’intelletto». «Il poeta sopra qualunque altro ha bisogno di illusioni potentissime, e dev’essere in mille cose straordinario e in alcune quasi pazzo, ma questo è un tempo di ragione e di luce» (V. Leopardi, op. cit., pp. 470 e 485).

28 V. Leopardi, op. cit., p. 474.

29 Bellorini, I, 257.

30 Dalle Considérations sur les vicissitudes du language etc., pubblicate nelle Polemiche di L. Di Breme a cura di Calcaterra, Torino 1928, p. 71.